«Ho lasciato morti dietro di me, i miei compagni di lotta sono in carcere o sepolti in qualche cimitero, mentre io vengo ricevuto ovunque come un re.»
Kader Abdolah, Il re, Iperborea
Traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo
Come i precedenti romanzi di Kader Abdolah, anche «Il re» è frutto di una febbrile urgenza di scrivere, di un dovere etico della memoria. Siamo nella Persia a cavallo tra Otto e Novecento, al centro del Grande Gioco tra Russia, Francia e Inghilterra per il dominio asiatico. Ma è anche l'alba della globalizzazione, una brezza incessante spazza via tradizioni millenarie per portare modernità e profondi cambiamenti. Debole, ostinato, vendicativo, più interessato alle duecentotrenta donne del suo harem e alla gatta Sharmin che ai problemi dell'Iran, lo scià Naser non sa intercettare gli snodi cruciali della Storia, ma proprio per questo mantiene il fascino umano del perdente legato a un mondo che scompare. A lui si contrappone il visir Mirza Kabir – trisavolo dell'autore – che lotta invece per un futuro di progresso, sognando la costruzione di scuole, fabbriche, ferrovie, ospedali e il diffondersi dei vaccini. Con «Il re» si ritrova l'Abdolah de «La casa della Moschea», il cantastorie affabulatore che rievoca profumi e atmosfere da mille e una notte, ma soprattutto il grande interprete del suo tempo, capace di cogliere il parallelo tra l'arrivo del telegrafo nella Persia di Naser e quello di internet nell'Iran di oggi. «Il re» si configura così come un romanzo di penetrante attualità, testimonianza di quel "contagio" dell'Occidente che, allora come oggi, porta con sé la speranza di un cambiamento alla lunga inesorabile.
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