«Ho solo un ricordo sbiadito del periodo precedente alla mia “rinascita” come commessa del konbini. Sono nata e cresciuta in un quartiere di periferia, in una famiglia come tante, ricevendo una dose di affetto nella media. Eppure ero una ragazzina un po’ strana.» Murata Sayaka, giapponese classe 1979, intaglia e dipinge la vita della trentaseienne Furukura Keiko, single e commessa part-time di un konbini, un convenience store, rendendola visibile attraverso le 160 pagine di La ragazza del convenience store (Edizioni e/o) come se fosse una raccolta di ukiyoe (le stampe giapponesi da matrice di legno tipiche del periodo Edo) contemporanei e pieni di colore. Keiko è in cerca della normalità fin dall’infanzia, condizione che sembra appartenere a tutti gli esseri umani tranne che a lei; l’unico luogo in cui sente di poter funzionare al punto giusto come l’ingranaggio di un meccanismo ben oliato è il konbini. Il posto di lavoro infatti è un non-luogo, artificialmente creato e abitato da persone che sorridono e si muovono secondo rituali stabiliti dalle convenzioni dei rapporti commesso-cliente, «un acquario freddo e asettico dove tutto va avanti come un congegno perfetto» cullato dalla musica del konbini composta da formule di saluto, irasshaimase!, registratori di cassa e campanelli, clientela che abita temporaneamente le corsie sotto le luci al neon.
Ogni giorno Keiko si presenta al lavoro come la cellula di un organismo indipendente, e ogni sera rientra nel suo appartamento solitario con la prospettiva di riposare per replicare al meglio la giornata appena conclusa: come sempre riveste i suoi panni da commessa per ritrovare in un attimo il suo posto nel mondo, e solo in quel caso può dire di funzionare come una persona «normale». Questa agognata normalità, che le chiedono, implorano, impongono amici e parenti equivale al matrimonio e alla maternità, all’inserimento nella società con il ruolo ritagliato per cultura e patriarcato che non comprende al suo interno una donna single che lavora, con l’aggravante di non avere nemmeno ambizioni di successo. La vita di Keiko è infatti sottoposta a scrupolosa analisi per essere inquadrata a forza nei binari prestabiliti, le anomalie, le aberrazioni vanno eliminate oppure appiattite a martellate come un chiodo che sporge dal muro. Per una ragazza che non risponde a tali regole, conviene pertanto applicare il timbro di «ragazza problematica», come un’etichetta appiccicata su un prodotto qualsiasi: «A loro interessava una sola cosa: avere ragione a tutti i costi e archiviare il caso, in base ai loro parametri e alle loro regole. È assurdo, perché la gente ha sempre bisogno di sentirsi rassicurata? Perché gli altri vogliono decidere tutto?», non stupisce quindi che in uno spazio costruito come il convenience store Keiko riesca a ritagliarsi un ruolo in cui sentirsi protetta dalla normalità aggressiva del mondo reale, dal binarismo che le grida cosa si debba e non debba fare a seconda del genere a cui appartiene, «In un konbini non c’è differenza tra uomini e donne, siamo dei commessi e basta!».
Come uno yōkai, un fantasma o uno spiritello giapponese, sgradevole e sgradito, appare sul palcoscenico del negozio Shiraha, un altro freak come Keiko, eppure maschilista e astioso. Più che un personaggio, una macchietta, uno stereotipo del trickster così comune nei racconti di fiabe, che con Keiko comporrà un disegno perfetto di yin e yang, di dualismo tra opposti che si parlano, due elementi estranei al sistema che cercano di sopravvivere attraverso la simbiosi, superando le regole su cui si fonda la società dalla preistoria: «Sei un uomo incapace di cacciare? Via, non servi! Sei una donna che non può procreare? Sparisci, togliti dai piedi! La società moderna finge di mettere al centro del mondo l’individuo, ma in realtà tutti quelli che non si adeguano alle norme sono scartati, neutralizzati e messi al bando, senza alcuna pietà».
Ma la normalità si può anche fingere, artefatta come la perfezione sugli scaffali del negozio, basta assumere le sembianze di una persona «normale» e applicare le regole, così che la comunità non ci riconosca come intrusi e ci lasci in pace: partecipare alla comunità per essere liberi dentro. La maschera della commessa è ciò che consente a Keiko di funzionare.
Nell’insieme degli eventi e nel ricamo tra racconto odierno e suggestioni della tradizione, La ragazza del convenience store, che nel 2016 vince il premio Akutagawa, ricorda un otogizōshi, un racconto del tardo medioevo giapponese che rielabora, con umorismo e originalità, l’oralità e le tecniche narrative di epoche precedenti. Se dapprima può cogliere in fallo il lettore con un’apparente semplicità, il romanzo si sfoglia livello dopo livello scoprendo profondità e aspetti della cultura giapponese celati ad una lettura disattenta. Murata sembra cucire il racconto della contemporaneità alle tradizioni narrative nipponiche; sembra di sentire, dalla bocca delle amiche di Keiko, le chiacchiere, i resoconti e le risatine delle Note del guanciale, opera dell’anno Mille della poetessa Sei Shōnagon che racconta la vita nella splendida e chiusa corte giapponese di epoca Heian; Keiko, Shiraha, i clienti e tutti gli altri animano le pagine come personaggi del teatro comico Kyōgen, col suo realismo legato alla vita quotidiana, i suoi scherzi, i registri diversi e la gestualità raccontata. I personaggi parlano tra loro, si muovono in una successione di eventi che, per quanto breve, ci parla e ci trascina dentro la sua storia. La vita di Keiko diventa la nostra, i suoi scopi, i nostri; «Sarai la migliore versione possibile di te stessa. Grande, no?».
Recensione originariamente pubblicata sul blog Al di là degli stereotipi, proprio qui.
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