top of page
Immagine del redattoreLibraia

Una strada difficile


Questo è il racconto della maternità. Maternità gioiosa, soffocante, negata, cercata, riflessa nei gesti quotidiani di vite diverse e contemporanee: «Durante la maternità, la moglie sembrava rinata. Viveva nella bambagia, lontano dal mondo e dagli altri. Si sentiva protetta. […] Ha iniziato a odiare i pomeriggi al parco. Le giornate invernali le sembravano infinite. Non sopportava i capricci di Mila, i primi balbettii di Adam la lasciavano indifferente. Più passavano i giorni e più sentiva il bisogno di uscire a camminare da sola. Avrebbe voluto urlare come una matta in mezzo alla strada. “Mi succhiano il sangue” si diceva a volte».

La prima scena è lorda di sangue: un bambino morto, una bambina di poco più grande agonizzante, ma che morirà subito dopo, una donna con i polsi tagliati ma ancora viva, una madre che urla. È un istante fissato come una polaroid, congelato in quell’urlo eterno, nel rosso del sangue che insozza tutta la diapositiva. Da questo istante Leïla Slimani procederà a ritroso per raccontare tutta la strada che porta all’apertura del suo romanzo Ninna nanna (Premio Goncourt 2016, edito in Italia da Rizzoli nel 2017 con la traduzione di Elena Cappellini).

Myriam, la madre raccontata, trova la quiete famigliare grazie all’aiuto della tata Louise; ritrova la sera bambini tranquilli e pettinati, visione appagante di quel desiderio di famiglia ideale che si vergogna di nutrire e che si accorda malamente con la carriera di avvocato che insegue. Myriam aveva sempre rifiutato l’idea che i figli potessero essere d’ostacolo alla sua libertà, e quando invece se ne è resa conto lo ha trovato ingiusto, frustrante, con la sensazione costante di essere incompleta, di lavorare male, di sacrificare una parte della sua vita a beneficio di un’altra. Louise, la tata perfetta che inventa storie meravigliose per i bambini, che li mette a letto in profumati pigiamini, che prepara la cena ai genitori e silenziosamente si chiude la porta alle spalle la sera, entra come una presenza leggera nella vita di Myriam e del marito Paul, nella sua assiduità umile e servizievole: «Anche se dicono che per noi è una specie di vacanza, se ti diverti troppo, si offendono». Slimani indugia sul lavoro di cura di Louise, lavoro che accomuna molte donne della periferia parigina descritta nel romanzo, donne che si incontrano nei parchi coi figli degli altri perché hanno lasciato i propri nei paesi d’origine; donne che curano la prole e le case di famiglie con una condizione economica e sociale migliore della loro, donne che fanno un lavoro per mantenersi in cui devono vendere anche il proprio sorriso e la propria disponibilità, e che agli occhi degli altri sembrano vivere una realtà che «non meritasse neanche di essere raccontata, che dovesse essere vissuta nell’ombra». Sono anni brutti da attraversare, anni di schiavitù in cui si ripetono sempre gli stessi gesti, in cui ci si occupa di corpi che reclamano amore e cure continue. Si vive una vita per interposta persona, attraverso le gioie e i successi di figli che non sono propri, che una volta cresciuti forse non si ricorderanno dell’esercito di tate che li ha accuditi durante l’infanzia.

Mentre Myriam spicca il volo dal caldo nido domestico verso una carriera appagante, il suo spazio viene occupato nelle ore diurne da Louise, la cui vita privata è cristallizzata nell’eterna attesa di un futuro migliore attraverso la sua insostituibilità nel cuore e nella casa dei bimbi che cura. La frustrazione per non essere davvero riconosciuta come parte della famiglia in cui lavora si trasforma in odio che turba i suoi slanci altruisti e il suo ottimismo infantile. Un odio che si trasforma in assillo dalla sensazione di aver vissuto troppo a contatto con gli altri e di non aver avuto diritto alla propria intimità, o per citare Virginia Woolf, «una stanza tutta per sé». Le frustrazioni, le parole non dette oppure dette male, gli ordini mascherati da cortesi richieste si trasformano, si depositano nell’animo e si incancreniscono fino all’orribile, torbido finale.

Leïla Slimani, nata a Rabat (Marocco) nel 1981, oggi vive a Parigi dove ambienta questo romanzo dalla prosa asciutta, efficace e tagliente, feroce nelle sue conclusioni. Ha esordito con Nel giardino dell’orco (in Italia sempre per i tipi di Rizzoli) vincendo il Prix de la Mamounia, il più importante riconoscimento letterario marocchino, romanzo che studia l’anatomia di una famiglia dall’apparenza felice, e prosegue con Ninna nanna seguendo il filo dell’emotività che scaturisce dai rapporti legati alla maternità e alla pressione sociale sulla donna in età fertile. Del primo libro dirà: «Quando ho presentato il mio primo romanzo Nel giardino dell'orco in Marocco tante donne venivano a parlarmi. Non ne potevano più di tacere. Vivono in una società che si sta modernizzando a una velocità straordinaria, ma ci sono ancora grandi resistenze», e dai racconti delle donne incontrate nei suoi anni da inviata in Maghreb per il periodico Jeune Afrique nascerà un libro, I racconti del sesso e della menzogna (Rizzoli, 2018), tredici testimonianze di sessualità e ricerca della libertà, di maternità e autodeterminazione femminile, di vittime, di stupri, di verginità.

Dalle pagine di Ninna nanna escono i ritratti di madri e di tate che sono le due facce della cura dei figli, una quella luminosa, padrona, colei che ha la forza anche economica di imporsi; l’altro è il volto, scuro e nascosto, che diventa lontano, «i bambini dimenticano, e mentre il viso e la voce di quella tata ormai lontana si cancellano, più nessuno in casa ricorda come si dica “mamma” in lingala, o quale sia il nome del piatto esotico che la domestica cucinava sempre. “Quel ragù di carne, com’è che si chiamava?”».

Osserviamo la storia di questa famiglia dai vetri, da dietro le tende, lieti che non sia la nostra e con il terrore strisciante che potrebbe esserlo; «I vicini di casa si sono radunati nell’androne del palazzo. Sono soprattutto donne. È quasi ora di andare a prendere i bambini a scuola. Guardano l’ambulanza, con gli occhi gonfi di lacrime. Piangono, vogliono sapere», e il pianto diventa la loro ninna nanna.


Ascolto consigliato: questa bella ninna nanna.


Recensione originariamente pubblicata su Radiosonar.net, proprio qui.

50 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

댓글


bottom of page